La "colta" del mulino

Testimonianze della vita di paese durante il periodo bellico e postbellico attraverso notazioni di costume, quadretti all'aria aperta, reminiscenze fiabesche colti senza la pretesa di trasfigurarli e nobilitarli nei termini dell'immaginazione poetica tradizionale. di GIORGIO PARAVENTI

 

 

Il primo riferimento storico della trasformazione del grano in farina servendosi della macinazione ad acqua si deve al poeta greco Antipatro da Tessalonica,che verso l'85 a.C. ,in un epigramma, cantò la liberazione delle donne dalla schiavitù della frantumazione manuale. 

Prima dell'uso dei mulini ad acqua ,presso i Romani, i frantoi per macinare il grano erano costruiti in pietra lavica.

Una pietra cava era posta alla sommità di una seconda pietra, costituendo, in tal modo una specie di clessidra.

Il grano era rovesciato nella cavità della pietra superiore che ruotando costringeva i chicchi di grano a passare tra le due pietre frantumandolo.

La rotazione era effettuata mediante due bracci orizzontali in legno, azionati da animali controllati da degli schiavi. 

Con la comparsa del mulino ad acqua nella seconda metà del IV secolo ,invece, un violento getto d'acqua faceva girare la ruota idraulica(costruita in legno di rovere) che , a sua volta, metteva in funzione una coppia d'ingranaggi ortogonali.

Per ogni giro di ruota idraulica si attivavano quattro, sei giri di macina rotatoria.

Il mugnaio, attraverso uno strumento detto paratoia, regolava l'immissione dell'acqua sulle pale della ruota.

Il corso d'acqua ideale per assicurare una buona macinazione idrica doveva avere: una corrente rapida, acque abbondanti e regime regolare. 

Mancando tali requisiti per garantire un riserva d'acqua sufficiente, i mugnai, dovevano costruire una diga (colta) nelle adiacenze del corso d'acqua naturale. 

Leonardo da Vinci (foglio 304 v-b ,Codice Atlantico, i disegni risalgono probabilmente al 1493-94), diede impulso allo sviluppo della tecnologia dei mulini ad acqua posizionando la ruota idraulica in modo tale da poter far girare le macine poste sia a destra che a sinistra dell'asse centrale del canale.

Era un'arte anche la costruzione delle macine, ottenute attraverso l'unione di tanti spicchi di pietra disposti a raggiera e tenuti insieme da un cerchio di ferro. La macina inferiore aveva la superficie piatta, mentre quella superiore era leggermente accoppata per raccogliere i chicchi di grano.

Ingegnoso era anche il sistema per avvertire il mugnaio che il grano della tramoggia era finito. Una campanella collegata tramite un filo ad un dado, posta nella tramoggia in mezzo al grano, cadeva puntualmente giù sulla macina quando il grano finiva suonando come sentinella d'allarme (era utilissima soprattutto di notte). 

Durante la rotazione della macina, del mulino ad acqua, il cereale viene schiacciato e strofinato con forte attrito (confricato); nel mulino a cilindri, invece, passa attraverso due coppie di cilindri rotanti di ghisa dura.

La macinatura a pietra è molto migliore di quella dei mulini a rullo.

I cilindri girano alla velocità di 300-350 giri il minuto mentre i vecchi mulini a pietra a 80-100.

Con l'alta velocità le farine s'impoveriscono di vitamine, proteine e disperdono l'olio del cuore a causa dell'eccessivo grado di raffinazione e del surriscaldamento.

Il pane e la polenta preparati con la farina dei mulini ad acqua, pertanto, daranno un prodotto più pastoso, ben legato, saporito e che si sfalda in bocca.

Oltre all'uso principale della molitura la forza derivante dalla rotazione della ruota idraulica, nel corso dei secoli, è stata sfruttata per azionare gualchiere, fabbriche di polvere nera, macine per argilla da terraglia.

Lavori molto produttivi ed assai remunerativi.

Da queste caratteristiche derivavano l'inappagabile, sfrenata cupidigia dei potenti e, di conseguenza, il desiderio di controllo della loro produzione.

Secondo il decreto, emanato da Francesco Maria della Rovere nel 1530, con cui i Conti della Porta furono insigniti del possesso della contea di Frontone, tutti i cittadini del feudo erano obbligati, da editti penali, a servirsi del solo mulino del Conte per macinare le loro granaglie.

Era di pertinenza del Conte, pertanto, anche il controllo del flusso delle acque.

Mediante un contratto d'affitto, il Conte, affidava ad un mugnaio la gestione del mulino.

La conduzione, in genere, era breve (3 o 5 anni), per permettere al Conte di ritoccare i canoni a proprio vantaggio.

Con l'affitto, il mugnaio acquisiva anche il diritto di pescare nelle vicinanze del mulino.

Il canone di locazione era di solito in frumento, raramente in denaro, ed era saldato a date semestrali o più brevi.

Il mugnaio, per la sua agiatezza, era invidiato dagli abitanti del paese, specie dai contadini.

Alle volte il mugnaio ricorreva a delle pratiche illecite per lucrare, oltre il dovuto, sull'operazione di molitura, in particolare:

 

- inumidiva la farina per aumentarne il peso,

- mescolava frumento di qualità diversa e

- faceva entrare sacchi di frumento privi della bolletta attestante il pagamento   della tassa.

 

Era tacitamente legittimato, invece, il tradizionale balzello consistente nel togliere un po' di farina dal macinato. 

Il mulino di Frontone, così, ha rappresentato, nei secoli, un esempio d'impianto di costante evoluzione tecnica e luogo privilegiato di confronto per l'esame dei problemi socioeconomico. 

Sviluppo graduale e completo magistralmente descritto nell'epico romanzo moderno "Il mulino del Po" di Riccardo Bacchelli, "in cui tutto il suo ultimo significato sembra armonizzare nel fluire del tempo i dolori della natura e dei

personaggi, il tempo "che volge e rivolge coi giorni e con noi ogni cosa nel segreto di Dio". 

L'ambito della macinazione del grano e delle biade era un centro d'incontro tra contadini, possidenti e commercianti che nell'attesa della molitura s'informavano sui fatti di cronaca.

Il mulino, come tutte le attività produttive, richiamava anche i ladri e i malandrini (approfittavano dei giorni nebbiosi e di maltempo per effettuare le loro scorrerie).

I gendarmi, allora, erano costretti a rimanere sempre nei paraggi per prevenire le ruberie.

La forza pubblica, inoltre, serviva, alle autorità, per far rispettare la tentata evasione dalla famigerata tassa sul macinato(una vera e propria tassa sulla fame).

Questa tassa, introdotta per la prima volta nel sec. XVII imponeva che il consumatore versasse una certa quantità di denaro per ogni libbra macinata.

La legge imposta dal 1° gennaio 1869 prevedeva il pagamento nelle mani del mugnaio, prima del ritiro delle farine, di:

 

2 lire per ogni quintale di grano macinato,

di 1,20 lire per ogni quintale d'avena,

0,80 lire per il granturco e la segale

e 0,50 lire per gli altri cereali, la veccia e le castagne.

 

Per una più rigorosa riscossione, nel 1876, vennero applicati degli appositi contatori alle macine. 

Negli anni dell'abbondanza il contadino andava al mulino quasi cantando mentre in quelli della carestia il suo misero sacco (qualche volta pieno di ghianda) era presagio di tempi cupi dovendo rinunciare anche a eventuali pochi chili di farina per non poter far fronte alla tassa sulla molitura.

E quando non disponeva degli averi sufficienti per assolvere al pagamento della tassa, doveva saldare l'importo con la prigione (durante il secolo XIX ogni scudo da versare corrispondeva ad un giorno di detenzione carceraria).

Sin dal 1869 l'imposta sul macinato diede origine ad agitazione e rivolte in quasi tutta la penisola. Si calcola che i moti costarono 250 morti e un migliaio di feriti. 

Questa triste circostanza ha fatto si che, dal 1300 alle soglie del nostro secolo, folle di diseredati abbiano percorso ed invaso strade e piazze per mendicare provvedendo, nel contempo, a diffondere la cultura popolare della povertà.

Ne sono scaturiti racconti , favole , storie, canti, giochi e pettegolezzi.

Così l'atavico assedio della fame faceva dire:

 

  • qui si mangia pane con le briciole, 
  • mi cascano le budella per la fame, 
  • sono pieno di vuoto, 
  • ho sempre mangiato pane e saliva, 
  • il povero non ha caldo neanche il fiato.

 

La colta del mulino aveva per noi bambini un fascino irresistibile poiché a fronte dei poco profondi gorghi ,ma limpidi, del fosso in cui beatamente sguazzavamo, era un grande invaso d'acqua profonda.

Nel medesimo tempo, però, la sua vista c'inquietava al pensiero che nelle sue profondità si potessero formare dei moti vorticosi.

Subito dopo la lezione di catechismo di don Luigi, alle volte, andavamo ad ammirare gli audaci coetanei che si tuffavano nella colta.

Massimo era il nostro apprezzamento per loro, ma noi, con profondo disagio, ci tenevamo a debita distanza per non caderci dentro.  

Il mulino era anche luogo del simbolo misterioso, nel cui ambito si aggiravano presenze in parte attestate, da un lato inquietanti (folletti, uomini deformi ecc.).

Nelle lunghe serate invernali, durante la veglia a casa di Mengrosso, il padrone di casa era solito novellare storie fantastiche di rapimenti di persone che scomparivano durante notte.

Unico indizio erano delle impronte bianche di farina.

Nel paese c'era un mulino di un povero panettiere, mentre, più lontano c'era un mulino da qualche tempo abbandonato.

Era incassato in un paesaggio, grattato e ingiallito da un'agricoltura senza reddito.

L'ultimo mugnaio, un tipaccio poco raccomandabile, s'era fatto un cattivo nome anche per certi suoi atteggiamenti un po' luciferini.

Ne era scaturito un proverbio molto eloquente:

 

il forno del diavolo non cuoce buon pane.

 

Seguendo queste tracce l'ardimentoso Giuanne d'Picchio entrò in questo mulino all'apparenza in disuso.

Nascosta da alcuni logori sacchi di farina c'era una botola infilandosi nella quale, dopo avere attraversato un basso cunicolo, arrivò in un'angusta stanza centrale.

Fu investito da un tal violento odore di zolfo bruciato che un tremito gli scosse le membra.

Riposava, nella caverna, un orco che si nutriva dei rapiti i cui resti erano sparsi ovunque sul pavimento.

Ma il rappresentante del negro regno era di odorato fino, avvertì sùbito la presenza di Giuanne d'Picchio:

 

“miccio ,miccio chi c'è odor di cristianiccio”

 

esclamò, ridestandosi improvvisamente dal torpore, e pronto si avventò contro l'intrepido giovane per divorarlo.

Questi, allora, vistosi scoperto, con gran sangue freddo così l'apostrofò:

 

tu che nella zona sei considerato il più raffinato dei buongustai

certamente apprezzare saprai

lo squisito ripieno del budello

del divin porcello.

Le salsicce sono squisite cotte sulla graticola,

ma il massimo dei piaceri si prova

abbinandole alla polenta,

come giustamente dice, Fiorone d' Trenta.

 

Così dicendo le porse una sfilza di salsicce e una fetta di polenta che dalla strolliga Farfanella aveva badato a far avvelenare con una sostanza tossica, in maniera specifica, per gli orchi.

Naturalmente il nostro eroe non aveva dimenticato di porre all'orco anche un bel fiasco di saporoso vino ben conoscendo il proverbio che dice:

 

“chi dopo la polenta beve l'acqua,

alza la gamba e la polenta scappa”.

 

Colto argutamente nella sua vanità mangereccia, l'orco volle assaggiare l'invitante salume abbinato alla polenta (pensando in cuor suo che gli sarebbero serviti da antipasto) e questo determinò la sua fine.

Il mulino, in piena funzione, era uno spettacolo di genialità tecnica che lasciava stupefatti.

Il fracasso infernale, poi, contribuiva ad incrementare il senso di meraviglia.

Si sentiva l'acqua che scorreva sulle pale, il cigolio della gran ruota, il brontolare degli ingranaggi.

Ogni anno la pietra che costituiva la macina veniva smontata, scalpellata(con un apposito martello) in modo da evitare che l'uso la levigasse eccessivamente, limitandone la capacità di essere abrasiva.

Il mugnaio soprintendeva con occhio vigile, sempre infarinato e ricurvo sulle macine e con gran maestria assicurava la buona conduzione del mulino.

Non era infrequente, tuttavia, che il mugnaio approfittasse del disorientamento del contadino per modificare, a proprio vantaggio, scegliendo il crivello con rete a maglia più larga, la percentuale di resa di farina e crusca.

La giustificazione che l'astuto artigiano metteva in campo, di fronte alle rimostranze del campagnolo, era sempre di natura

meteorologica:

 

“costanno il grano n's'è fatto bene,

la spiga è voida,

è tutta sembla”.

 

Ne nascevano, inevitabilmente, delle animatissime discussioni che vedevano prevalere sempre il mugnaio e l'agricoltore, di fronte a queste vessazioni inopinate, con le pive nel sacco, se ne doveva tornare a casa con una rabbia mal contenuta. 

Diveniva, in tale maniera, il mugnaio, oggetto di caustici detti popolari:

 

a Macerata, si era solito dipingerlo come un tipo poco raccomandabile:

 

"Lo mulinà de la bianga farina,

co'll'occhi guarda e co' la mano trascina"

 

Similmente in terra di Romagna era costume sentenziare:

 

“quando senti il mugnaio che canta

è allora che ti ruba la farina;

quando senti che non canta più

è allora che la porta su”.

 

Ma altre immagini legate al mulino ci appaiono, oggi, nostalgiche e con umiltà toccanti.

Sono quelle legate alla macinatura del granturco che coincideva con l'inizio della stagione invernale, a quella del meritato riposo per il contadino e per la terra.

Allora egli, uscendo dal mulino con il suo sacco in spalla era sereno, come se si fosse tolto un gran pensiero divenendo, frattanto, dimentico della sua condizione di classe subalterna.

Poteva arrivare l'inverno con la neve e il gelo a bloccare ogni attività agricola, ma la calda ed invitante polenta sulla spianatora era assicurata.

In questa occasione, inoltre, quasi sempre, sovrastava il sacco di granturco un bel baccalà: il sopraffino piatto del dì di festa.

Il prezioso carico, infine, era ricoperto, gelosamente, da una giubba tutta rattoppata. 

Con la preparazione della polenta si rinnovava la tacita sfida tra chi per primo fosse riuscito a mangiare completamente quella del proprio settore meritando, in tale maniera, l'ambito premio dell'unica salsiccia o pezzo di cotica che troneggiava nel centro della polenta stratificata sulla spianatora.

Al tempo in cui c'erano ancora i lumi a petrolio e l'acqua potabile s'andava a prendere allo Spinello, riempiendo l'orcio con il ramaiolo, in questa singolare tenzone, potevano capitare delle amare sorprese.

 

Menco intravide, nella polenta a lui spettante , una forma scura:

se ne accorse anche il fratello Gustino, che tutto eccitato gli disse:

 

“tira Menco che c'hai trovato un pezzo d' cotica”

 

e Menco di rimando, tutto arrabbiato e deluso,

 

"tira un acidente c'te spacca,

 

è na salamandra".

 

In alcune regioni italiane, dove il mito pagano aveva contaminato il rito religioso cattolico, veniva rispettata la tradizione antichissima (risaliva ai Greci) di mangiare la "polenta con i fagioli" la sera della Vigilia dei Morti.

Era una tenera forma di comunione con i propri morti, perché ,secondo il complesso delle memorie le anime dei defunti sarebbero risedute nei baccelli delle Leguminose. 

 

Guardando, oggi, il mulino possiamo ricordare le parole d'Attilio Bertolucci (Torrente da Sirio):

......

“E quel mulino che si vede e non si vede

tra i castagni, abbandonato”.

 

Allora scaturisce dal nostro animo un sentimento tranquillo, un ricordo sereno: no! non possiamo dimenticare il sito primordiale del nostro paese, simbolo di vita, di rigenerazione naturale.

Dobbiamo recuperare quell'atmosfera odorosa che con grande schiettezza diveniva presagio di piacere.

Un odore, come si suole dire, lascia sempre un certo desiderio molto maggiore di qualunque altra sensazione.

Le cose molto odorifere, che sono buone anche da mangiare, per lo più vincono coll'odore il sapore, e questo non corrisponde mai all'attesa di quello stimolo.

 

 

 CANTO DI CARNEVALE

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A NONNA MARIA