Le Osterie

L'osteria di Peretti, l'osteria di Dorno, L'osteria di Merico, L'osteria del Castello, Le sidavventure di Peppe di Gubbio all'osteria.

Testimonianze della vita di paese durante il periodo bellico e postbellico attraverso notazioni di costume, quadretti all'aria aperta, reminiscenze fiabesche colti senza la pretesa di trasfigurarli e nobilitarli nei termini dell'immaginazione poetica tradizionale. di GIORGIO PARAVENTI

L'Osteria di Peretti

 

 

Proprio davanti alla mia casa di Bonconsiglio c'era l'osteria di Peretti.

Personaggio apparentemente sanguigno per la sua voce stentorea, in fondo era una pasta d'uomo.

Il bancone di mescita era enorme e sormontato da una spessa lastra di marmo.

Una bellissima aquila di legno scolpita , troneggiava sul davanti.

Il locale era addossato alla roccia risultando, in tal modo, costantemente fresco. 

L'andirivieni di avventori, specialmente nei giorni di festa, era notevole e questo avvalorava la mia impressione che il vino (prevalentemente bianco) fosse buono.

Molti bevitori, infatti, erano alticci quando uscivano.

Allora bevevo vino molto annacquato, ma la sensazione di freschezza e fragranza che si respirava nell'osteria di Peretti mi è rimasta. 

Tra i tanti aneddoti che allora circolavano a proposito della figura di Peretti, uno lo ricordo bene perché ebbe come protagonista il simpatico comportamento di mia madre.

Il nostro oste si lamentò con mia madre, mostrandole l'ordine, per il ritardo della consegna di tre grandi barattoli di conserva di pomodoro.

Nel leggere, tuttavia, la richiesta fatta da Peretti, mamma, constatò che in luogo di tre l'oste aveva scritto , in maniera dialettale, trene.

Prese la palla al balzo e con viso preoccupato imputò a quest'errore il ritardo della consegna: "per inviare un treno di conserva, infatti, era sicuramente necessaria una lunga preparazione".

Il povero Peretti si sentì mancare e finché non arrivarono i tre barattoli fu attanagliato dal dubbio che mamma avesse ragione.

 

 

 

 

L'osteria di Dorno

Dorno, rispetto a Peretti, aveva un vantaggio: il negozio di generi alimentari.

Non era infrequente, di conseguenza, che alcuni fedeli amanti del liquore di Bacco, per giustificare e per rafforzare la loro sete ricorressero all'uso del baccalà o della sardella da mangiare tal quale senza prima avere tolto il sale. 

Altra gran attrattiva, per noi bambini, dell'osteria di Dorno erano le bocce.

Le epiche disfide a "quarantotto" finivano, inevitabilmente, per far circolare numerosissimi litri di freschissimo vino bianco di grotta. 

Un altro incancellabile ricordo di quest'osteria, inoltre, è legato all'arrivo ,periodico, della carovana dei muli che trasportavano carbone da Chiaserna.

Tra timore e meraviglia (in paese vedevamo solamente magre e stanche somare) ci avvicinavamo, con circospezione, a questi enormi quadrupedi ammirandone la possente struttura muscolare.

I cavallari, invece, una volta entrati nell'osteria di Dorno erano irretiti dai suoi piacevoli rilassamenti vinosi e verbosi. 

Sempre da Dorno, si svolgeva ,annualmente un raduno dal fascino irresistibile per noi bambini: quello dei cacciatori che provenivano da Pesaro guidati dal mitico costruttore di motociclette Benelli.

Cani bellissimi e ben curati, vestiario dei cacciatori elegante ed appropriato, cartucciere gonfie di cartucce multicolori, fucili per lo più a ripetizione lucidi e splendenti come appena usciti dalla fabbrica, comportamento signorile dei

cacciatori, per la nostra modesta vita quotidiana ,tutto questo spettacolo, era una vetrina sfolgorante.

Al termine, quindi, di una faticosa giornata di caccia, i pesaresi amavano dissetarsi all'osteria di Dorno e dolcemente distendendosi ,rivivere tutte le più emozionanti fasi della battuta. 

Nei grandi giorni di festa ,infine, l'osteria di Dorno, dispensava, tramite gl'intraprendenti figli dell'oste, una grande leccornia :le cialde fatte con l'apposito stampo recante immagini sacre.

Quella prima sensazione rarissima la ricordo ancora vivamente e, nonostante i tentativi, non sono più riuscito a riassaporarla.

Ma ormai sono sicuro che non la ritroverò mai più, perché è stata la prima.

 

L'Osteria di Merico

L'osteria era una componente dell'intero polo di attrazione costituito dalla bottega di generi alimentari, dal cinema e dal ballo.

Elementi per noi bambini di gioia sfrenata, visto che era l'unico luogo di divertimento del paese in cui potevamo godere della presenza dei genitori.

Di quest'osteria ho un ricordo di un'estate, già giovanetto, trascorso in compagnia di un cugino di mio padre che era ritornato dagli Stati Uniti dopo quasi cinquant'anni dalla partenza.

Dopo cena, nell'osteria Merico, quando ancora la notte non aveva oscurato l'inconfondibile profilo del Catria, mi affascinavano i racconti di Mario riguardanti le estese bellezze dell'America, la solidità della società americana e l'esuberanza di vita dei suoi figli che non conoscevano l'Italia.

Ma tutte le sue struggenti parole erano venate di malinconia per una patria a cui si sentiva legato da profonde radici di sangue, ma da cui era dovuto emigrare per ragioni di lavoro, ed una patria acquisita, splendente, ma senza legami profondi.

A completamento di quest'atmosfera mesta, Mario offriva, seguendo la pessima abitudine degli americani di miscelare le bevande, del vino corretto con l'anice.

Lui lo chiamava "il carretto", ma date le proprietà deprimenti che aveva l'anice, il nostro umore andava sempre più giù. 

Nel silenzio della notte il profumo dei gigli era puro e forte come un'essenza. 

Un altro nitido ricordo mi lega all'osteria di Merico: il ballo all'aperto nell'aia in un giorno susseguente la Liberazione del 1945.

L'andirivieni dell'oste con il vino era frequentissimo.

Alcuni partigiani, con il loro fazzoletto rosso, erano ancora vestiti con gli abiti da montagna.

L'euforia crescente era però mitigata dai troppi lutti che la guerra aveva arrecato.

La volontà di festeggiare per dimenticare, pertanto, aveva un sopravvento temporaneo.

I ballerini volteggiavano nell'ara con un sorriso privo d'allegria.

Ma l'ambientazione della festa campestre era di una schiettezza commovente.

La stentata armonia del suono della fisarmonica, invadeva l'anima.

 

 

 

L'osteria del Castello

 

Era l'osteria della festa (andavamo, la domenica, alla messa al Castello scalando l'impervia erta del Cerqtino), pertanto, vivace e austeramente gioiosa.

La sovrastante Rocca, infatti, trasmetteva anche all'osteria un'immagine d'ambiente intensamente e drammaticamente vissuto.

Riconduceva alla memoria assalti e valorose difese, in ogni caso fatti di sangue; il Castello tutto, pertanto, ne conservava la contrastante impronta. 

Ma di quest'osteria c'era poi anche un altro ricordo angoscioso descritto più volte da mia nonna.

Agli inizi del novecento, quando gli uomini, disperatamente prostrati dall'agra esistenza, trovavano unico momentaneo conforto nel vino dell'osteria del Castello, di sera ritornavano alticci e rabbiosi alle loro abitazioni.

Non era infrequente, allora, di fronte alle lamentele delle donne, sentire risuonare degli indispettiti ceffoni.

Ma questo era niente di fronte alle questioni nate da una parola, e decise con i pugni, o le coltellate. 

E pensare che se c'era, e c'è, a Frontone un luogo che in maniera struggente concilia sentimenti di pace e serenità era, ed è, proprio il pianoro antistante l'osteria, per la magnifica vista che fa godere quando nel bagliore stanco del tramonto s'ode quel musicale silenzio della natura. 

Sentimenti che così come li definisce Giovanni Verga ne " I Malavoglia", sono "miti e semplici che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione". 

Osservando il panorama che dal Catria si estende fino a Nerone, sembra di essere sospesi nell'aria, la visione è seducente e inverosimile come un sogno. 

Ma con l'animo esacerbato dalle ristrettezze e dalle incertezze, i nostri nonni non potevano apprezzare il raffinato ambiente boschereccio e avvedersi, come dice Eugenio Montale nella poesia I limoni (in "Ossi di seppia"), "della parte di ricchezza, che tocca anche ai poveri".

 

 

 

Le disavventure di Peppe di Gubbio all'osteria

Al comparire della buona stagione arrivava Peppe di Gubbio a cavallo della sua mastodontica bicicletta(una vera e propria bottega di riparazioni ambulante).

In un'economia agricola povera, qual era quella di Frontone in quegli anni, subito dopo la seconda guerra mondiale, il recupero ed il risparmio erano d'obbligo. Peppe, con la sua versatile professionalità, svolgeva un ruolo cruciale in tal senso arrotando coltelli e forbici, riparando ombrelli ed aggiustando piatti di terracotta o ceramica. Di carattere esuberante e dotato di voce altisonante, riusciva, in breve tempo, a far riversare su di sé l'attenzione di tutta la frazione di Bonconsiglio. 

I lavori, però, li eseguiva solamente al mattino.

Nel pomeriggio, d'abitudine, dopo una frugale colazione, per lo più molto salata, si trasferiva in osteria a bere vino.

Beveva con metodica costanza e parlava in continuazione.

I suoi racconti vertevano, di solito, su presunte avventure amorose capitategli nel suo lungo peregrinare. Molto verosimilmente erano tutte inventate, ma le sapeva illustrare bene citando particolari piccanti che non potevano fare altro

che destare l'invidia degli ascoltatori.

Di anno in anno, però, gli episodi narrati perdevano di mordente per cui era facile che nascessero delle illazioni.

L'arrotino, vuoi per i troppi bicchieri di vino che lo rendevano irascibile, vuoi anche per un certo orgoglio pappagallesco ferito, reagiva in maniera scomposta, alle volte violenta, ai lazzi del popolo frontonese.

Tutto si risolveva, allora, in un finto fuggi fuggi generale per evitare la lite con l'ebbro Peppe. 

Ma all'osteria di Paravento trovò il proprietario, Sidoro, che oltre a deriderlo per le sue improbabili avventure, reagì a piè fermo alle sue ingiurie.

Ne nacque una zuffa polverosa, fatta più di tentativi di aggressione che di veri propri cazzotti inferti (anche Sidoro, come al solito, era alticcio), ma che divenne improvvisamente violenta e pericolosa per i contendenti.

L'osteria di Sidoro, infatti, aveva, antistante all'ingresso, uno spiazzo contenuto, ombreggiato da un bell'albero di gelso-moro, e, per di più, terminante in una scoscesa scarpata piena di rovi.

Nella lotta Peppe ebbe la peggio e rovinò tra gli spini.

Accorsero in molti, credendo di trovarlo malconcio; aveva, invece, riportato solamente delle semplici escoriazioni superficiali.

E da quel gran guascone che era, con lo sguardo trasognato, senza perdere la sua proverbiale ed istrionica ironia, pronunciò la storica frase:

 

 

t'avea preso e vinto

il vin d' San Lorenzo

o Peppe

ma tu hai voluto sfidar lo stesso,

il padrone dell'osteria del moro:

ci senti adesso,

come mena Sidoro?

 

 

Rimessosi in piedi si riavvicinò all'oste e, con fare faceto e pieno di sudditanza, gli propose prima un giro di valzer e poi un brindisi di pace:

 

 

“stappa, gli orci panciuti,

mesci il vino splendente,

ti sono amico nel piacere

non vorrai ch'io rimanga senza bere”.

 

 

 

 

Castelplanio 19.07.02

 

 IL BALLO DELLA LIBERAZIONE

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